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Materie prime critiche, per l’Italia la vera miniera sono i rifiuti. Ma oggi li manda all’estero

Il decreto con cui il governo si propone di riattivare l’estrazione arriva in Parlamento, insieme a una nuova mappa dei giacimenti. Il presidente di Iren Dal Fabbro: con dieci impianti e mezzo miliardo di investimenti potremmo riciclare oltre il 30% dei metalli strategici


Mercoledì l’Italia avrà una nuova mappa aggiornata delle materie prime critiche presenti nel suo sottosuolo, compilata dall’Ispra. E il giorno dopo alla Camera inizierà l’iter di conversione del decreto che – nelle intenzioni del governo – dovrebbe contribuire a riattivare l’industria mineraria nazionale, velocizzando le relative autorizzazioni. Ma per l’obiettivo, europeo e soprattutto italiano, di raggiungere una maggiore autonomia nei metalli fondamentali per la transizione verde, le produzioni hi-tech e la difesa, in molti casi importati da Paesi rivali come la Cina, più che l’estrazione potrebbe il riciclo. “Oggi in Italia abbiamo poche miniere attive, ma abbiamo una miniera a cielo aperto che sono i nostri rifiuti”, ha detto ieri il presidente della multiutility Iren Luca Dal Fabbro, con riferimento ai vecchi apparecchi elettrici ed elettronici, da cui è possibile recuperare significative quantità di elementi chiave. Con una decina di impianti di lavorazione – è la stima della società – per un investimento di mezzo miliardo di euro, il nostro Paese potrebbe raggiungere entro il 2040 una quota di riciclo superiore al 30%, oltre gli obiettivi fissati dalla Commissione e fatti propri dal governo.

L’estrazione delle materie prime e il loro recupero non sono certo in contraddizione: lo stesso decreto del governo vuole creare una corsia preferenziale per l’intera filiera. E il ministro del Made in Italy Adolfo Urso ha spiegato che l’Italia è stata tra i Paesi che hanno spinto Bruxelles ad alzare l’obiettivo di riciclo dal 15 al 25%. Ma finora il governo ha posto molta enfasi soprattutto sull’apertura o riapertura delle miniere (con l’obiettivo di coprire entro il 2030 il 10% dei consumi), e nell’indirizzare le – limitate, un miliardo – risorse stanziate con il fondo sovrano per il Made in Italy bisognerà decidere su quale puntare di più. Mentre i progetti di estrazione presentano in tutto il mondo, e a maggior ragione in Italia, enormi complessità – tempi e costi di sviluppo, ritorno sull’investimento, impatto ambientale, sicurezza, opposizione delle comunità locali – gli impianti di riciclo garantiscono maggiori certezze, anche considerando che il sistema di raccolta dei rifiuti elettronici nel nostro Paese è già piuttosto capillare e che nei prossimi anni la quantità di apparecchiature che arriveranno a fine vita, dai panelli alle batterie, non farà che crescere. Il problema è che oggi il 90% di quei rifiuti viene spedito per la lavorazione in altri Paesi, che poi magari rivendono la materia prima di recupero alle imprese italiane.

Lunedì alla Camera Iren ha lanciato un hub – RigeneRare – che riunisce i principali operatori italiani del riciclo di materie prime critiche e metalli preziosi come oro e argento, con l’obiettivo di accelerare lo sviluppo della filiera. La multiutility è senza dubbio parte interessata, visto che opera nella raccolta dei rifiuti e già oggi è attiva nel recupero di materiali speciali come i pannelli solari. Allo stesso tempo però esplora anche la strada dell’estrazione, visto che insieme a una società australiana ha in progetto di sviluppare nel Lazio quello che potrebbe diventare il maggiore giacimento di litio in Europa. Ma sono le stesse cautele di Dal Fabbro – “stiamo facendo le valutazioni geologiche per vedere se è possibile” – a ribadire la differenza: i rifiuti non sono solo una grande miniera, ma anche l’unica che l’Italia è sicura di poter sfruttare.

a cura di Filippo Santelli da www.repubblica.it

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